Sommario
Dedica
Personaggi
Prologo
I due supplicanti
L’arrivo di Nausica
La deliberazione dell’impresa
L’addio
Il viaggio nell’oceano
L’omaggio al Re dell’Atlantide
L’uccisione di Poseidon
Il sacrificio di Ulisse
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PROLOGO
(Dante Inf. XXVI, 52-142)
« Chi è’n quel foco che vien sí diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’ Eteòcle col fratel fu miso ? »
Rispuose a me : « Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e cosi insieme
a la vendetta vanno come a l’ira ;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscí de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entre l’arte per che, morta,
Deïdamia ancor si duol d’Achille
e dell Palladio-pena vi si porta. »
« S’ei posson dentro da quelle faville
parlar », diss’io, « maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua venga ;
vedi che del disio ver’ lei mi piego ! »
Ed elli a me : « La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto ;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi ; ch’ei sarebbero schivi,
perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto. »
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi :
« O voi che siete due dentro a un foco,
s’io meritai di voi, mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi, assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete ; ma l’un di voi mi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi. »
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica ;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse : « Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me piú d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sí Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pietà
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penèlope far lieta,
vincer potero dentro da me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore ;
Ma misi per me l’alto mare aperto
sol con un legno, e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’ Ercule segnò li suoi riguardi ;
acciò che l’uom piú oltre non si metta :
da la man destra mi lasciai Sibilia
da l’altra già m’aveva lasciata Setta.
« O frati », dissi, « che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola viglia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza ;
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e conoscenza. »
Li miei compagni fec’io si aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti ;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già dell’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il promo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque ;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giú, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso. »
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